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Collaborazioni

ANNALISA CAPUTO

GiocoTra
Scenari di riflessione, tra arte e filosofia

Il tema del gioco e quello dell’arte, per lo meno a partire da Nietzsche, si sono incontrati e scontrati nel pensiero del Novecento, dando vita a diversi, possibili luoghi interpretativi.
In queste faglie possiamo collocare anche il progetto ‘GIOCOfUORI’. E vogliamo provare a farlo a partire da alcuni scenari filosofici. Non perché – di fatto – essi siano da considerare come ‘sorgente’ del percorso presentato a L’ARTERITIVO di Napoli, ma perché – di fatto – i due linguaggi (quello dell’arte e quello della filosofia) nel ‘gioco’ possono incontrarsi. E, in maniera feconda, reciprocamente darsi voce, corpo, senso.
E, allora, a questo incontro, proviamo a dare colore, segnando, solo per grandi e veloci pennellate, gli scenari di un’ideale piattaforma girevole.
Innanzitutto lo scenario di Gregory Baetson, che ci aiuta a distinguere tra play e game.
Questo – potremmo dire, applicando le categorie baetsoniane a GIOCOfUORI – non è un gioco/game, non è un gioco/cornice, con delle regole prestabilite, con una logica definita, con una precisa, necessaria, struttura ‘interna’. Questo è un play: un giocare s-corniciato, posto ‘fuori’ di uno spazio delimitato; un giocare la cui logica si va a definire nel momento stesso in cui si gioca; un giocare, un creare, un mettersi in opera che modifica le proprie regole nel momento stesso in cui le crea. E perciò è un gioco-fuori, la cui struttura non è interna, ma esterna; non è fissata dall’opera, ma è ogni volta scomposta e ricomposta dalla libertà delle mani e degli occhi di chi ne fa esperienza.

Dunque lo scenario di Hans Georg Gadamer, che ci ricorda che la struttura del gioco è la stessa dell’opera d’arte e la stessa dell’esistenza: la struttura della possibilità: l’insieme delle possibilità in cui siamo chiamati ogni volta a metterci in ‘gioco’, che siamo chiamati a tirare ‘fuori’ dal nulla, a ridefinire annullandoci e ricreandoci sempre di nuovo.
Perché tutte le volte che giochiamo, tutte le volte che viviamo un’esperienza estetica (lasciandoci prendere da un’opera d’arte visiva, da un concerto, da una rappresentazione teatrale…) noi prendiamo le distanze da noi stessi, da ciò che siamo, dalla realtà del quotidiano ed entriamo in un mondo ‘altro’, in un mondo ‘fuori’, il mondo del gioco, il mondo dell’opera. Diventiamo ‘altri’: diventiamo giocatori, diventiamo fruitori artistici, viviamo una ‘tras/formazione’, una mutazione del nostro essere, della nostra forma. E, quando poi il gioco o l’esperienza di fruizione artistica finisce (e torniamo ‘dentro’, torniamo noi stessi), non siamo mai gli stessi di prima: non solo perché il metterci in gioco ci rende consapevoli dei nostri limiti e delle nostre possibilità, ma anche e soprattutto perché – fermandoci sul discorso artistico – il mondo di quell’opera incontrata, fruita, vissuta, ha reso più ricco il nostro mondo, gli ha dato uno sguardo in più, una prospettiva in più a partire dalla quale guardare il reale.

E, con questo, siamo già in parte anche sullo scenario di Paul Ricoeur: nella sua teoria della mimesis e del linguaggio.
Ogni rappresentazione (linguistica o artistica) è una “configurazione” e “rifigurazione” del mondo e del nostro essere. Ogni parola, ogni opera d’arte si allontana dalla ‘realtà’, va ‘fuori’ di essa e crea un mondo ‘altro’. In un libro che leggiamo, ci perdiamo. E possiamo godere di un’esperienza artistica solo smarrendoci in essa e nella sua particolare configurazione del reale. Ma ogni parola, ogni opera, non vuole solo il ‘fuori’, non vuole solo l’“esilio” dal mondo, ma anche il ritorno ad esso. E questo ritorno (che è il ritorno del lettore, del fruitore artistico al mondo del quotidiano) non è altro che una “rifigurazione” del proprio sé. Non comprendiamo mai (tanto o solo) un’opera, ma comprendiamo noi se stessi “davanti” ad un’opera. Ogni opera, cioè, se è veramente un mondo, ci aiuta – di ritorno – a comprendere noi stessi ‘dentro’ il nostro mondo singolare.

Infine – tra i tanti altri scenari che si potrebbero squadernare – vogliamo segnalare quello di Jacques Derrida, che, a nostro avviso, si confà in maniera particolare a GIOCOfUORI.
La struttura, il segno e il gioco nell’opera d’arte, potremmo dire, parafrasando il titolo di una nota conferenza del ’66, nella quale il filosofo algerino/francese ha consegnato alla cultura una delle prime definizioni del ‘decostruzionismo’. Dunque: non un’impostazione statico-metafisica, ma un’interpretazione continua dei sensi e dei significati che le diverse strutture ci consegnano. Non il possesso di una verità definitiva (nella vita, nella filosofia, nell’arte…), ma un viaggio, in cui il mondo continuamente si costruisce e si decostruisce (…e noi stessi non siamo i ‘soggetti’ di questo evento, ma parti di esso). Non l’evidenza di ciò che è detto o esposto, ma un gioco nelle pieghe del reale, che cerca di mostrare paradossalmente il non-detto (non dicibile), il non-visto (non visibile), il sotteso, i vuoti, gli interstizi del senso. Non la necessità logica e nemmeno la predeterminazione di una volontà che sa già in anticipo ciò che deve accadere, ma un pensiero, un percorso in movimento, sempre aperto all’imprevisto e all’imprevedibile. Al divenire. All’alea, direbbe R. Callois. I dadi, i tasselli di una scacchiera indefinita.
Tele, carte… dipinte, come “cartoline postali”, per dirla con un altro ‘titolo’ derridiano. Là dove il testo, il messaggio, il contenuto affidato alla cartolina (nel nostro caso ai frammenti d’opera) ‘viaggia’ con la carta stessa, percorre luoghi e strade, viaggia nei cieli e tra i vagoni (nel nostro caso la struttura dei binari architettonici, in cui sono inserite le ‘carte’). Una cartolina paradossale, però, perché, se non vuole perdere il senso del ‘viaggio’, non deve essere mai consegnata, fermata, bloccata definitivamente. Ma deve sempre nuovamente riprendere il percorso.
Perché una “struttura centrata”, “un gioco certo”, sicuro, rassicurante, di cui si sa già l’esito, non è più un gioco, fa notare Derrida. Il gioco rimanda all’assenza di un percorso di significato ‘ultimo’, univoco.
E questo perché tra essere e linguaggio, tra significante e significato, tra segno e senso (tra l’opera d’arte e ciò a cui essere rimanda) non c’è identità, ma, differenza, differance, continuo differire. Crescere di movimenti l’uno nell’altro, l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro. Gioco di rimandi, lacerazioni, composizioni e scomposizioni.

Difficile, davanti a GIOCOfUORI, per chi si intende di filosofia, non pensare alla critica della ‘mitologia bianca’ di Derrida. La poliedricità del colore spezza qui ogni pretesa di omologazione e centralizzazione. Difficile non pensare alla critica derridiana del fono-logo-centrismo. Nella nostra cultura occidentale c’è un predominio, una centralità – ricorda Derrida – della voce (phonè) e del logos (della parola, del concetto). Nascosta, poco evidente, rimane l’importanza delle tracce, l’equivocità della scrittura, lo stile evocativo, la consapevolezza che – in ogni ‘dire’ – l’essere, il significato, il contenuto resta ‘assente’ o perlomeno ‘lontano’: in un ‘fuori’ irraggiungibile.
Ecco allora il valore dei segni particolari della scrittura. Ma, possiamo aggiungere, anche dei ‘segni’ dell’arte, quando essa si presenta come ‘autonoma’ da chi la crea: del tutto estroflessa verso il lettore/fruitore.

Il gioco, la scrittura, l’arte – fa notare Derrida, riprendendo Freud – è un fort/da, un dentro/fuori, un presente/assente. Principio di piacere e contenimento d’angoscia, che, però, sempre, contemporaneamente, svelano il proprio contrario. E ricordano che il dolore e l’assenza di certezze fanno parte dell’esistenza stessa.

E, allora, al di là (e per certi versi contro, oltre Derrida) possiamo dire che una “verità in pittura”, una verità della pittura, dell’arte c’è. E anche una verità dell’esistenza.
Perché sebbene sia vero, oggi più che mai, che non possiamo, kantianamente, pensare ad un’autonomia trascendentale del bello, sebbene sia vero che la cornice non difende più il dipinto e, diventando permeabile, consente sempre al mondo di entrare nell’opera d’arte e all’opera d’arte di invadere il mondo (tanto che sempre più diventa difficile stabilire il confine tra il mondo della realtà e il mondo dell’arte), sebbene sia vero che è il percorso di ogni singolarità di vita che determina il senso di un’opera (e GIOCOfUORI lo dimostra) ed è il percorso di ogni singolo frammento di opera che diventa specchio di senso per la vita che lo costruisce e decostruisce, sebbene cioè la simbiosi tra arte e vita (così come quella tra soggetto e oggetto) sia talmente profonda da impedire – nell’età postmoderna – ogni dualismo metafisico, sebbene dunque non esista una verità ‘oggettiva’ (nella pittura come nella vita), l’alternativa non è il nulla. E nemmeno il nichilismo. E nemmeno la dispersione del senso. Ma l’alternativa è quella delle ‘cuciture’, è quella dei ‘binari’, delle carte, del gioco: è quella di chi accetta, ogni volta di nuovo, di ricucire i propri segni e i propri significati, di modificare il percorso e rimettersi in carreggiata, di mescolare i semi e rilanciare il senso.
Perché, l’esistenza, un senso ‘può’ averlo. Una verità può averla. Non data per scontata, ma data da cercare. Da giocare.
E, allora, in quest’ottica (e forse solo in quest’ottica) anche l’arte, anche la filosofia può trovare il suo senso, la sua verità: quella di ricordare (a chi gioca il gioco della vita) che non bisogna stancarsi di cercare. Non bisogna stancarsi di decostruire, sì. Ma, poi, sempre di nuovo, soprattutto, non bisogna stancarsi di ri/costruire. Il che, forse, è la cosa più difficile.

Annalisa Caputo


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